Rivalità in Arte nel Rinascimento

Tre geni assoluti in guerra tra loro

Sono sempre rimasto colpito e affascinato dalle storie dei grandi artisti del Rinascimento ed ho notato come tutti i grandi momenti importanti di evoluzione dell’arte, siano stati connotati da contrasti e a volte da vere e proprie rivalità tra i protagonisti principali di quella specifica rivoluzione culturale.

Ho anche visto come questi giganti nella loro arte cadessero vittima di rivalità e gelosie a volte anche meschine che li mettevano in contrasto, al punto di farsi dispetti e denigrarsi l’uno con l’altro, di cercare di rubarsi le commesse e gli incarichi o di tentare di sabotare il lavoro e la fama del rivale.

La storia dell’arte del Rinascimento ci da molte notizie riguardo a questo aspetto: la diatriba forse più nota e significativa è stata quella che ha visto contrapporsi Leonardo, Michelangelo e Raffaello.

Andiamo con ordine

Che Michelangelo, Raffaello e Leonardo non si amassero è storia nota, l’anedottica che li riguarda è ricca di episodi che sottolinea le loro diversità

.

Michelangelo: ruvido, scontroso, introverso e tormentato, che riversò i pensieri più profondi in notevoli versi poetici.

Leonardo, al contrario amava inventare barzellette e raccontarle per intrattenere le gaudenti corti nelle quali visse, da Milano alla Francia. Oggi lo definiremmo un “uomo di mondo”: estroverso, brillante.

Raffaello, bello, raffinato appassionato, amatissimo dalle donne, più giovane e fortunato del suo collega Michelangelo, figlio d’arte come Mozart e come il grande musicista venuto a mancare troppo presto.

Michelangelo e Leonardo

Nel luglio del 1501 Michelangelo Buonarroti fu richiamato a Firenze, sull’onda della fama che si era guadagnato grazie alla Pietà del Vaticano, per lavorare ad una statua di proporzioni grandiose: un David, da ricavare da un grande blocco di marmo di Carrara che nessun altro scultore aveva voluto usare perché difettoso e sproporzionato

Michelangelo: la Pietà

Michelangelo: Il DavidMichelangelo's_David.JPG

Aveva solo 26 anni, ma era già il più famoso e ben pagato artista dell’epoca. Accettò la sfida nel 1501 e fino al 1504 lavorò incessantemente, senza aiuti, spesso vestendo gli stessi panni per giorni, sempre nascosto dietro una fitta impalcatura di legno.

Nel gennaio del 1504 la statua, di 4,10 mt e cinque tonnellate di peso, fu svelata agli occhi della commissione dell’Opera del Duomo e al Gonfaloniere della Repubblica Fiorentina, Pier Soderini.

La scultura suscitò da subito meraviglia e stupore, era magnifica e straordinaria. Fu deciso di riunire una commissione di artisti, di cui faceva parte anche Leonardo da Vinci, per decidere dove collocare il capolavoro.

Si scatenò un dibattito acceso tra chi – come Leonardo – voleva che la statua fosse posta dove all’inizio era stata destinata: su uno dei contrafforti della Cattedrale di Santa Maria del Fiore, a circa 80 metri d’altezza; e chi voleva per la statua una collocazione più degna.

Per farla breve, successe che, in piena notte, “il Gigante” passò sotto gli occhi attoniti dei fiorentini, rotolando su tronchi di legno nelle vie del centro fino a Piazza Signoria dove fu posta.

L’episodio segnala la rivalità che subito si era accesa tra Leonardo e Michelangelo, dovuta probabilmente sia la conflitto tra generazioni diverse, (Leonardo aveva 23 anni più di Michelangelo), sia a concezioni artistiche inconciliabili: da un lato la razionalità, l’abito rigorosamente scientifico di Leonardo e il primato da  lui accordato alla pittura su tutte le arti, dall’altro la profonda spiritualità di Michelangelo e la sua ferma convinzione della assoluta superiorita della scultura, che, con perfetto spirito di  coerenza, riesce a trarre anche dalla pittura effetti di rilievo tipicamente scultorei.  

Essi incarnarono istanze totalmente opposte: Leonardo non teme di emanciparsi  dalla tradizione; Michelangelo, al contrario, appare compiaciuto di continuarla.  La forma plastica era l’ideale della scuola fiorentina. Leonardo la considerava in rapporto all’atmosfera  che la circondava. Innovazione felice e tutt’ora attuale e moderna. Michelangelo faceva della plasticita il cardine  della sua arte.  Leonardo inneggiava alla prospettiva.  Michelangelo, preferì dimenticarla o, tutt’al più, avvalersene solo in funzione del rilievo plastico.

Un aneddoto rivelatore

Un manoscritto redatto alla metà del cinquecento, l’ “Anonimo magliabechiano”, racconta di uno scontro che i due artisti avrebbero avuto nella pubblica via al tempo in cui entrambi si trovavano a Firenze. 

“Passando dritto Leonardo insieme con Giovanni da Gavine. da Santa Trinità […] dove era una ragunata di uomini da bene e dove si disputava un passo di Dante, chiamarono detto Lionardo diccendogli che dichiarasse loro quel passo […] E a caso appunto passò di qui Michele Agnolo, e chiamato da uno di loro, rispose Leonardo: – Michele Agnolo ve lo dichiarerà egli. Di che parendo a Michelagnolo l’avesse detto per sbeffarlo, con ira gli rispose – Dichiarolo pur tu, che facesti un disegno di un cavallo per gittarlo di bronzo (la statua equestre non realizzata di Francesco Sforza) e non lo potesti gittare e per la vergogna lo lasciasti stare”. E detto questo voltò loro le rene e andò via, dove rimase Lionardo che per le dette parole diventò rosso”

Una sfida diretta

Nel 1504, Michelangelo ebbe un altro importante incarico pubblico, l’affresco della “Battaglia di Cascina” per la sala del Gran Consiglio – in Palazzo della Signoria, proprio nella parete di fronte a dove il suo temibile avversario Leonardo, avrebbe realizzato un’opera sulla “Battaglia di Anghiari”. 

Firenze intendeva così celebrare la gloria repubblicana rievocando due vittoriosi scontri: quello che  aveva opposto fiorentini e pisani a Cascina, nel 1364, e quello di Anghiari contro i milanesi, nel 1440.

Le autorità avevano chiamato i due massimi artisti presenti in città, impegnandoli a “singolar tenzone” per ricavarne così il meglio.

La sfida si preannunciava interessante: i due avrebbero dovuto lavorare a confronto, contemporaneamente, su due pareti opposte. Purtroppo andò a finire che né l’uno né l’altro riuscì a completare la propria opera.

E non che non ci provassero; anzi: entrambi prepararono degli strepitosi cartoni (perduti) dei rispettivi affreschi, che furono esposti e giudicati superlativi dai contemporanei, servendo poi da materiale di studio per varie generazioni di artisti, alle cui copie si deve la trasmissione della rappresentazione originale.

Leonardo si era concentrato sulla scena della battaglia, sull’urto dei corpi e delle armi, rappresentando una scena spettacolare che avrebbe turbato tutti per la dinamica ed esplicita ferocia

Leonardo: la battaglia di Anghiari

Michelangelo aveva scelto un episodio narrato dalla “Cronica” trecentesca di Giovanni Villani, ritraendo i soldati fiorentini nel momento in cui, accampatisi presso Cascina, si stavano concedendo un bagno in Arno: quand’ecco che all’improvviso venne dato l’allarme che costrinse i prodi guerrieri a rivestirsi in fretta per fronteggiare l’attacco.

Michelangelo: la battaglia di Cascina

Michelangelo: lo studio del nudo

Come nella sua opera giovanile, la Battaglia dei centauri, è ancora una volta lo studio del nudo ciò che soprattutto sembra interessare Buonarroti: la dinamicità, l’energia e la concitazione di quei corpi virili nelle loro varie risposte di fronte al fattore sorpresa (Vasari ammirava soprattutto il vecchio soldato seduto in primo piano, sulla destra che si infila più svelto che può le brache sulle gambe bagnate).

Leonardo: gli effetti pittorici

Anche dal punto di vista tecnico le differenze si facevano sentire: Leonardo puntava essenzialmente sull’effetto pittorico, sulla composizione dinamica e sulla psicologia dei contendenti, compresa quella dei cavalli, uno dei quali ferocemente morde quello dell’avversario.

Michelangelo invece, che si sentì sempre e soprattutto scultore, aveva disegnato una serie di figure statuarie dal forte impatto plastico.

La scuola del mondo

Quel che ci rimane è il racconto di ciò che accadde quando fu deciso di esporre in mostra i cartoni preparatori nel palazzo dei Medici all’ammirata curiosita della folla.

Fu un vero  trionfo. Gli artisti, specialmente, sostavano incantati di fronte ai due prodigiosi  lavori, e li analizzavano, con incredibile pazienza, per poi riprodurli in una serie di  copie più o meno felici.  

L’assoluta disparita di vedute dei due artisti si rivelo, in maniera esplicita, in quei  grandi cartoni preparatori, che Benvenuto Cellini, con particolare rispetto, defini  “La scuola del mondo”.

Lo sconcerto di Raffaello

Con la stessa rispettosa ammirazione dei suoi colleghi, un giovane artista,  desideroso di apprendere, si avvicinò ai due capolavori: Raffaello Sanzio.  

Per l’Urbinate quello fu il primo incontro con lo stile di Leonardo e di  Michelangelo, e ne riporto una impressione profonda.

Il Buonarroti sopratutto esercitò sul sensibile Raffaello una particolare  influenza.  I due artisti si conobbero, in seguito, a Roma, alla Corte pontificia del  battagliero Giulio II. Si conobbero, ma non si compresero, e, per conseguenza,  non poterono amarsi: erano troppo diversi.

I due rivali di Raffaello

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una madonna di Raffaello

“Ma più di tutti il grazìosissimo Raffaello da Urbino, il quale studiando le fatiche de maestri vecchi e quelle de’ moderni, prese da tutti il meglio, e fattone raccolta, arricchì l’arte della pittura di quella intera perfezione che ebbero anticamente le figure di Apelle di Zeusi, e più se sì potesse dire, o mostrare l’opere di quelli a questo paragone.

Laonde la natura restò vinta da suoi colori, e l’invenzione era in lui sì facile e propria, quanto può giudicare chi vede le storie sue, le quali sono simili alli scritti, mostrandoci in quelle i siti simili e gli edifici. così come nelle genti nostrali e strane le cere e gli abiti, secondo che egli ha voluto: oltre il dono della grazia delle teste. giovani. vecchi, e femmine.

E così i suoi panni piegati né troppo semplici nè intriganti, ma con una guisa che paion veri.”

G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittùri scultori et architettori

Raffaello nasce a Urbino nel 1483, in una delle capitali del Rinascimento. Figlio d’arte, il padre lo affida al Perugino da cui apprende la prospettiva, il disegno netto, il chiaroscuro, il sentimento, la differenziazione dei personaggi.

E’ considerato a torto da certa critica un talento originale, ma minore rispetto a Michelangelo e Leonardo. Eppure Raffaello non li ha mai copiati. Ma li ha fatti propri creando una propria lingua.

Come abbiamo visto, nei primi anni del 500 Raffaello si sposta a Firenze e incontra le opere di Michelangelo

Michelangelo: il Tondo Doni

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E le opere di Leonardo

Leonardo: La Vergine delle rocce

35 Leonardo- La Vergine delle rocce.jpg

Due avversari temibili

Di fronte allo scontro di due concezioni artistiche tanto inconciliabilmente diverse quanto eccezionalmente rivoluzionarie e creative, Raffaello si accorge di essere fuori gioco, “di aver insino allora gettato via il tempo e diventò quasi di maestro nuovo discepolo e si sforzò con incredibile studio (di fare) essendo già uomo, in pochi mesi quello che avrebbe avuto bisogno (di fare) in quella tenera età che meglio apprende ogni cosa, e nello spazio di molti anni”.

E se a Urbino nella scuola del Perugino, dipingeva come lui, e meglio di lui, a Firenze l’intento era ora quello di farsi emulo di Michelangelo e di Leonardo, e in seguito a Roma ancora di Michelangelo, e degli autori dei capolavori dell’antichità che mano a mano proprio lui andava scoprendo in quella città sepolta da secoli.

Da Firenze, dove a quell’epoca era molto quotato come pittore di dolcissime madonne, Raffaello, chiamato dal Bramante, si sposta a Roma nel 1508 nello stesso periodo di Michelangelo.

A Roma riceve una commissione da papa Giulio II della Rovere – dipingere le opere pittoriche più importanti: gli affreschi delle Stanze Vaticane, sopra la Cappella Sistina dove, negli stessi anni, a pochi metri di distanza, avrebbe lavorato Michelangelo, costretto dal Papa perché il grande progetto della sua tomba, che avrebbe dovuto celebrare l’apoteosi del trionfo della scultura sulle altre arti e della gloria di Giulio II sul mondo, si era perso in problemi tecnici insormontabili (ci rimane di quel progetto il Mosè, in San Pietro in Vincoli). Pare anche che, al fallimento del progetto della grandiosa tomba di Giulio II, non siano state estranee le trame di corte messe in atto da  Bramante e altri artefici, gelosi del credito di Michelangelo.

Gli intrighi nella curia romana

       

   Michelangelo: Mosè Michelangelo_Moses.jpg

Bramante architetto e sovrintendente ai lavori del Vaticano, non vedeva di buon occhio le spese che il Papa aveva stanziato per l’immensa opera del suo mausoleo, che sarebbe stato eseguito da Michelangelo: temeva che questa impresa colossale di scultura avrebbe sottratto risorse a quella delle decorazioni del Vaticano, per le quali aveva chiamato Raffaello; di concerto con Giuliano di San Gallo i due s’adoperarono direttamente a stornare il Papa dalla continuazione della sua tomba: alla fine riuscì finalmente a persuaderlo a rinunciare al progetto e suggerì al Papa di far dipingere le volte della cappella costruita da papa Sisto, suo zio, e d’incaricare Michelangelo di quel lavoro. Pare che il suggerimento fosse inspirato da un poco di malignità, al solo fine di far inciampare Michelangelo, poco abile nella pittura a fresco, un fallimento avrebbe esaltato le capacità del suo protetto, Raffaello.

Quello che è certo è che Michelangelo, il quale non temeva rivale in scultura, dubitando di compromettersi, si rifiutò a lungo d’accettare quel lavoro, cercando addirittura di farlo affidare al Sanzio ma Giulio II persistette ne’ suoi desiderj, e Michelangelo dovette ubbidire. Cercò aiuti e collaboratori a Firenze che lo aiutassero in questa impresa per lui tanto ostica ma non ne fu soddisfatto e li rimandò indietro, decidendo di lavorare da solo, per molti anni.

La cappella Sistina e le Stanze Vaticane

Quel che ne uscì: gli affreschi della Cappella Sistina è ancora sotto gli occhi di tutti e deve aver creato grande impressione in Raffaello che pare abbia potuto seguire in segreto, grazie a Bramante, la lavorazione sui ponteggi; Il giovane artista sa apprendere dal suo rivale e negli affreschi delle Stanze Vaticane si avvertirà l’influenza degli stilemi michelangioleschi.

Il lavoro di Raffaello terminerà bruscamente nel 1520 quando, giovanissimo, morirà a 36 anni.

Subito Michelangelo cercherà in tutti i modi di impadronirsi della commessa e di subentrare nei lavori delle Stanze adducendo la ragione che non si potevano affidare lavori tanto importanti a dei semplici allievi. Purtroppo per Michelangelo gli allevi di Raffaello erano molto ben preparati, dato che egli delegava moltissimo del suo lavoro agli aiutanti e le Stanze saranno concluse dai suoi allievi tra cui Giulio Pippi in arte Giulio Romano.

Due temperamenti assai diversi

Raffaello e Michelangelo nella pittura, stanno come Mozart e Beethoven nella musica.

Uno gentile, calmo, sereno, giocoso; l’altro burbero, agitato, inquieto, solenne

Anche Raffaello, come Mozart (che morì quasi alla stessa età), malgrado il rumore e l’agitazione del suo tempo, riuscì a comporre lo spazio con i più dolci ritmi.

Raffaello come Mozart

Godette per nascita di due privilegi: di un padre pittore che lo indirizzò nello studio mettendolo a bottega dal Perugino e fece in modo che avesse un immediato riconoscimento delle sue eccezionali doti artistiche.

perfezione e serenità nei volti…

figure leonardesche ingentilite…

michelangiolesco, ma meno drammatico, più “religioso”…

Raffaello è stato totalmente interprete d’un ideale bellezza classica, canonica, tanto da passare nel gusto di interi secoli di civiltà e da connaturarsi con il nostro ideale di bellezza, che non si distingue più, con lui, tra il bello di natura e il bello artistico. 

Il Rinascimento italiano in qualche modo rinnovò il miracolo dell’antica Grecia: si manifestò la stessa  esuberanza di artisti e pensatori; la stessa frenetica sete di bellezza che  prendeva l’aristocratico ed il plebeo, e ne faceva degli innamorati dell’arte.    

La figura del Buonarroti si stacca su questo sfondo, testimoniando l’aspetto contraddittorio e doloroso, che pure era presente, dell’epoca. Sempre pensieroso, si isolava  volontariamente, per dedicarsi, indisturbato, alla sua fatica.

Raffaello, sostanzialmente sereno e  socievole, era entusiasta della vita, e ne fissava gli aspetti migliori nella sua  pittura.

La resa dei conti

Il dissidio tra Raffaello e Michelangelo, rimasto in un primo momento latente,  esplose con intensità sconcertante quando ognuno dei due artisti aveva il suo  capolavoro da compiere: Raffaello nelle Stanze Vaticane; Michelangelo nella  Cappella Sistina. 

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Michelangelo: particolare della volta della Cappella Sistina

L’arte dell’Urbinate, tutta protesa verso la serenità, dava l’impressione di una  dolcissima melodia, di equilibrio armonioso della forma, e di senso misurato dello spazio tipici della sua visione artistica, trasformavano le sue pitture in una fine poesia.  

Questo finché non ebbe l’occasione di vedere ciò che Michelangelo stava realizzando sulla volta della Sistina. Allora il suo calmo mondo pittorico, sembrò cedere all’improvviso. 

   

l’influenza di Michelangelo

Sibille e Profeti pensosi rivivevano nella pittura del Buonarroti, ponendo domande sul doloroso destino umano. Le storie pittoriche rappresentate, parlavano di peccato originale ed esprimevano, al tempo stesso, il desiderio di redenzione. 

L’umanità veniva mostrata come sospesa tra colpa e speranza, ed appariva in contrasto con quella dipinta da Raffaello, nella Stanza della Segnatura.  Qui, gli uomini raffigurati non sono oppressi dal peccato, ma rivelano una  superiore calma.

Raffaello aveva il difficile compito di fissare in pittura, attraverso figure  simboliche, il concetto platonico del Vero, del Bene e del Bello.

 

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Raffaello: la scuola di Atene

Nella Stanza della Segnatura, raggiunse il vertice della sua arte,  per quella maestosa e serena bellezza, che seppe conferire a tutte le figure  rappresentate. La “Disputa del sacramento”;  la “Scuola d ’Atene”, con la silenziosa presenza dei suoi filosofi; il “Parnaso”,  con la geniale adunata dei suoi poeti; le “Tre Virtù”, con i loro rispettivi simboli,  e le altre figure allegoriche della volta rappresentavano perfettamente l’ambiente ideale in cui il Papa e la sua corte amavano identificarsi e appartenere.  

La potenza plastica delle figure della Volta Sistina, probabilmente inluenzò il genio assimilatore di  Raffaello.

La monumentalita, elemento caratteristico dell’artista, si accentuò, ma non  fu scossa da nessun dramma.

Ma la maniera michelangiolesca incomincio ad essere evidente nell’affresco  della “Scuola di Atene”, dipinta col proposito di evocare e in qualche modo integrare nella corte papale, i  grandi dell’antichità, attraverso i caratteri fisionomici dei piu significativi artisti del Rinascimento.  Platone, dalla lunga barba e dal gesto indicativo è Leonardo; Archimede, tutto  preso dalla dimostrazione ‘dei suoi principi, Bramante; Eraclito, che siede pensoso ed in disparte, s’identifica facilmente con la corrucciata  figura del Buonarroti.

In quest’ultima figura in particolar modo, alcuni hanno visto come, il bisogno d’identificare uno dei  filosofi della “Scuola di Atene” con l’artista Buonarroti, rivelerebbe, in maniera  esplicita, la segreta ammirazione di Raffaello per il suo grande rivale.  Raffaello ritrasse Michelangelo, isolandolo dagli altri, in atteggiamento  meditativo. Egli dette prova cosi per aver avvertito le vibrazioni di quell’intimo e  doloroso dramma della solitudine, che tormentò la grande anima.

Raffaello debitore di Michelangelo?

La diatriba nata su una presunta sudditanza di Raffaello rispetto a Leonardo e, soprattutto, a Michelangelo nasce da subito e si trascina per secoli, è tutt’ora viva e attiva.

Se ne trovano tracce a partire sin dall’opera del Vasari e nel tempo le tesi delle diverse tifoserie si sono scontrate con alterne vicende.

Non mi sento di partecipare a questa disputa, mi sembra priva di senso e non mi appassiona.

Mi sembra invece dire che è piuttosto normale che – essendo Raffaello più giovane di entrambi i geni che lo hanno preceduto – incontrando le loro opere egli  le abbia ammirate e – possedendo le necessarie doti tecniche, critiche e culturali – ne abbia tratto i dovuti insegnamenti e abbia fatto proprie certe intuizioni che è riuscito a cogliere nell’opera dei due mostri sacri con cui ha avuto la sorte fortunata di potersi confrontare, per questa via arricchendo la propria poetica e visione artistica.

Una morale da trarre?

Se una lezione si può trarre da questa storia – a prescindere dalle piccole miserie umane e dalle gelosie, che pure ci sono state –  è che il confronto tra questi tre geni, in un epoca culturalmente ribollente e ricca di fermenti come quella in cui è capitato loro di vivere, li ha messi alla prova, stimolati e costretti ad evolvere al massimo.

 

La nostra epoca ribollente e carica di cambiamenti e crisi, non sembra molto diversa dall’epoca che ha generato nella nostra nazione quel Rinascimento.

Tutto è in movimento e cambiamento, nulla è più sicuro, nel nostro sistema di vita, grandi minacce si profilano all’orizzonte e il futuro sembra incerto e pericoloso come allora.

Ci sentiamo tutti in un momento di apparente stallo e impotenza, i nostri sistemi sanno gestire efficacemente l’innovazione solo quando già esiste, ma stentano a generarne di nuova.

Invertire questa tendenza rappresenta una sfida vitale a tutti noi. Per questo è diventato necessario inventare un mondo nuovo, fatto di persone, valori, identità, culture, che permetta di integrare i differenti attori della nostra società per farli agire come i “nodi” di una pervasiva “rete di innovatori”.

La cultura del Rinascimento, che ha saputo unire la più alta spiritualità al pragmatismo scientifico artistico e politico, può aiutarci a riflettere sulle nuove frontiere che ci attendono, favorendo la generazione di innovazione creativa e rendendola pervasiva dell’intera società.



 

 

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Alessandro Pedroni

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